Il potere distruttivo contro i dannati della Terra: il caso Diciotti.

Per gentile concessione della Prof.ssa Maria Rita Parsi, già relatrice nel marzo di quest’anno al nostro convegno “Donne al centro. Non più bersaglio ma risorsa” e da oggi componente del Comitato Tecnico Scientifico di Passaggi a NordEst, pubblichiamo un brano tratto dal suo ultimo libro, edito da Chiarelettere, “Manifesto contro il potere distruttivo”. Ovvero del “perché troppo spesso il governo delle famiglie e delle nazioni è in mano a chi rappresenta la parte peggiore o malata di noi”.
LIBRO-PARSI

Prendo ora tra le mani un articolo che scotta e che induce a riflettere. È un articolo che ho estrapolato dagli altri nel settembre 2018, sulla scia della crisi della nave Diciotti, altra metafora del potere distruttivo. È stata, infatti, per me motivo di dolorose, sconfortanti considerazioni la vicenda dei naufraghi a cui non veniva concesso di scendere dall’imbarcazione che li aveva salvati, perché era in atto un braccio di ferro tra l’Italia (gravata dall’ingente afflusso di clandestini), gli italiani (di norma antica, generosi e accoglienti) e l’Europa, al fine di regolare diversamente la distribuzione di quei migranti fra le varie nazioni. E, ancora, di monitorare i prevedibili rebounds, ovvero le ripercussioni socioeconomiche, legali e culturali, legate al fenomeno migratorio nel nostro paese, primo approdo per chi fugge da condizioni di vita inumane ma anche possibile snodo di passaggio per criminali e terroristi.

Come sempre, sulla tragica condizione dei 177 migranti – tra i quali c’erano bambini, donne stuprate e torturate, uomini a rischio di morte, se costretti a tornare nei paesi d’origine segnati da guerre, dittature, carestie – si è consumato uno scontro di interessi ben oltre ogni umana considerazione. Ovvero, ben oltre valori e diritti, ben oltre ogni legalità, per rispondere con il rifiuto alla «minaccia» di chi si sente «territorialmente minacciato». Un chiaro esempio di come la paura fa prevalere il potere distruttivo, lo mette in scena, lo esalta, lo fa diventare un modo di comunicare e di agire. Come dire che non c’è nessuna possibile mediazione, che bisogna rispondere con un ultimatum all’emergenza continua, bypassando i tempi, i quali invece – nel rispetto di se stessi e degli altri – sono sempre necessari alla conoscenza e dunque a una possibile inclusione e integrazione tra esseri umani.

In quella situazione, il conflitto ha prevalso sul costruttivo modo di agire insieme, per risolvere problemi che riguardano tutti gli europei e, per giorni e giorni, hanno vinto la xenofobia, il disprezzo del dolore, la sfida a un’Europa chiamata a un’assunzione di responsabilità che doveva essere condivisa e che, invece, era stata evasa. E ancora, per giorni e giorni, è stata offerta alla pubblica spettacolarizzazione l’angoscia di quelle 177 persone in un limbo. Persone che avevano vissuto l’esperienza di un salvataggio dal mare in tempesta – un mare che aveva già ingoiato altre vite davanti ai loro occhi – e sono poi state lasciate a lungo nella paura e nell’attesa. Dalle loro ferite, il potere distruttivo trarrà nuova energia. Poiché l’impotenza, l’umiliazione, il rifiuto e il non ascolto sono le matrici prime del moltiplicarsi dell’odio distruttivo che ammala il mondo. Ed è come, per intenderci, nascere, con rischio e fatica, dalle inquiete acque del liquido amniotico (un parto difficile, difficilissimo) e poi, quando ci si aspetta d’essere accolti e protetti, doversi confrontare con una mancanza d’amore e di cura. Si tratta di esperienze che separano gli individui, invece di consentire loro di affrontare insieme problemi e difficoltà; che fomentano umiliazioni, frustrazioni, negazioni che diventeranno, poi, posizioni estremistiche e radicali, odio, violenza, rancore. In una parola, «distruttività», intorno alla quale organizzare la disperazione e il rancore delle periferie del mondo, offrendo il braccio armato di infinite, inarrestabili, incontenibili rivendicazioni e vendette ai dannati della Terra.

Si tratta di esperienze che segnano – fisicamente e psichicamente, quando non mortalmente – sia chi le attua, imponendo agli altri il dolore che gli è stato inflitto, sia chi le subisce. Al punto da non consentire alcun completo recupero di umana speranza e di futuro. Esperienze, dunque, che consegnano, assai spesso, individui e comunità alla negazione di se stesse, per l’incontrollabile bisogno di negare anche il bene della vita altrui, così come è stato negato quello della propria. E che diventano, infine, contagiose come fossero peste e lebbra sociali. E quel contagio, emotivo oltre che fisico e legato allo svolgersi degli eventi, si traduce in violenza, criminalità, terrorismo, persecuzione, guerra. A motivo della paura e della disperazione suscitate che, con il tempo, trasformano in modo negativo non solo la vita degli individui ma quella delle collettività e dei popoli. E mettono a repentaglio, quando non distruggono, quel che, di secolo in secolo, è stato faticosamente realizzato dagli esseri umani, affinché si potessero affermare e valorizzare norme e pratiche di convivenza civile, empatica e, perfino, amorosa tra le persone.